Dicono che fare qualche lavoretto durante gli anni dell’università sia molto formativo.
Il 2007 è stato un annus horribilis per me. Doveva essere il secondo della mia carriera accademica, e invece è stato il primo della mia carriera da fuoricorso. Nel 2007 dire “fuoricorso” era come dire “fuorilegge”, “fuorigioco”, “fuoridallamanodiddio”. E cosi, per espiare la mia colpa, mi sono autoimposta i lavori forzati.
Ogni weekend, pioggia neve vento, mi mettevo l’anima in pace e andavo “al catering”, che significava vestirsi di nero, prendere la macchina, raggiungere qualche villa sul lago di Como o nelle campagne pavesi, e lavorare una media di 10-15 ore senza fare pipì, per dare da mangiare a gente che si sposava, che compiva 50 anni o che festeggiava l’imposizione della religione cattolica a un infante.
Al catering c’erano cose belle. C’erano decine di ragazze e ragazzi simpaticissimi, a cui non importava se venivi dal Parini, dal Berchet o da un linguistico scalcagnato di provincia. C’erano casse di flut impilate fino al cielo che vacillavano a ogni soffio di vento – ogni tanto uno di questi palazzi di cristallo si schiantava a terra, ed era un misto di disperazione e gloria. C’era Mangiafuoco che impastava la carne cruda con due mani gigantesche e sempre sudate. Ce ne diceva di tutti i colori, ma era un uomo dal cuore tenero.
Al catering ho imparato molte cose, per esempio che la vescica ha una capienza notevole e che a nessuno importa che tu sappia il greco quando rovesci un intero barattolo di pepe nel pentolone del risotto al tartufo. Che i camerieri fanno un lavoro durissimo e difficile. Che dietro alle quinte di un servizio apparentemente impeccabile ci sono anche mani zozze, bestemmie, accrocchi, bicchieri rotti e molti ragazzi fuoricorso e fuorilegge. Direi soprattutto fuorilegge.
La cosa più formativa del catering, però, non mi è successa durante uno di questi servizi dell’orrore, ma durante una delle difficili nottate che li precedevano.
Proprio durante l’annus horribilis 2007 ho vissuto il primo episodio di un particolare tipo di insonnia che non mi ha mai del tutto abbandonata, un’insonnia imprevedibile che quando arriva mi tiene sveglia per una notte intera. Circa una volta al mese capita ancora oggi che io scenda dal letto così come ci sono salita, senza aver chiuso occhio per un solo minuto.
Non posso dimenticare la prima volta che sono caduta nel cono dell’insonnia. Era la notte che precedeva l’inizio dei servizi di catering per il salone del mobile, praticamente l’anticamera dell’inferno. I sintomi, da allora a oggi, si sono molto attenuati, ma il climax è sempre lo stesso.
Tutto comincia da una sensazione di scomodità del cuscino, che all’improvviso non riesce più ad accogliere le guance senza stressare i denti e la mascella – ora so che questa durezza è il preambolo inconfondibile dell’insonnia. Il cuore e la pancia sembrano più leggeri del solito, le gambe non stanno ferme e guidano la danza delle cento posizioni più una, tutte scomode. Braccio destro sotto al cuscino gambe distese. Pancia in sù gambe aperte. Braccio sinistro sotto al cuscino gambe rannicchiate. Posizione fetale completa destra. Posizione carpiata a ore dodici. Potrei andare avanti in eterno.
Prima arrivano i mini tarli – la paranoia di aver lasciato le cuffiette sul treno, il dubbio di non aver completato per bene la procedura d’inserimento dati per il cambio di residenza. Poi è la volta dei presagi disastrosi – la certezza che quell’evento doloroso ricapiterà, la paura di non farcela a raggiungere quell’obiettivo, la paura della morte. Ogni pensiero di notte si deforma e prende più spazio, ma la cosa peggiore è che nel buio, insieme ai pensieri, si addensa anche la certezza che quella versione catastrofica della realtà sia la più lucida, e che la leggerezza del giorno sia solo un inganno, un’illusione da stolti – e forse, chi può dirlo, è davvero così.
Le ore intanto passano lente e veloci insieme. Lente perché la notte non finisce mai, veloci perché ogni minuto in più da svegli è un minuto in meno da addormentati. E allora iniziano i tentativi disperati di chiudere a forza la saracinesca del giorno, e a quel punto vale tutto: dal training autogeno ai pensierini felici, dalle pecore che saltano lo steccato al rosario. Ho recitato più preghiere durante le mie notti insonni che in tutti i miei anni di mantra yoga.
Oggi so che quando è così non c’è niente da fare e non bisogna credere troppo a chi promette soluzioni e ripete la storia di respirare con il diaframma. In tutte queste tecniche si annida un baco che è anche logico: se si disponesse della serenità che serve per riuscire davvero a concentrarsi sul proprio diaframma, si dormirebbe già da un bel pezzo. Negli anni ho capito che questa è un’insonnia contro cui non possono nulla nemmeno lo Xanax e l’En, che pure in tempi non sospetti ho provato, e che nella maggior parte dei casi hanno avuto come unico effetto quello di farmi sentire ancora più rintontita al sorgere del sole.
La prima volta che questa forma di insonnia è venuta a trovarmi ho temuto che sarei morta. Credevo che fosse pericoloso non dormire neanche un minuto per una notte intera, che il giorno successivo al lavoro mi sarebbe esploso il cuore insieme alla vescica, mentre distribuivo bollicine fra gli sgabelli in pelle di Dexter Milano. Credevo che sarei svenuta sulla tartare di carne, che sarei inciampata sui palazzi di cristallo, che Mangiafuoco avrebbe incenerito il mio non-contratto, che oltre a essere fuoricorso e fuorilegge sarei diventata persino fuoricatering.
Verso le quattro del mattino, a due ore di distanza dal suono della sveglia, sudata e piangente, ho preso la decisione migliore del mio 2007. Ho attraversato il corridoio di moquette arancione che separava la mia camera da quella dei miei genitori, sfiorando la boisserie delle pareti con la punta delle dita appiccicose e tremolanti. Con un filo di voce ho svegliato mia madre.
Mamma, non riesco a dormire. Eh vabbè, Celeste, sarai tesa per domani, capita. Se domani mattina vado a lavorare così mi esplode il cuore, ed è troppo tardi per dire a Mangiafuoco che non mi presento. Stai tranquilla che non muori, al massimo arriverai a sera molto stanca. Ma non è normale non dormire neanche un minuto, ti rendi conto? Neanche un minuto di sonno ti dico. Come faccio a superare tutte quelle ore di lavoro? Morirò durante il servizio.
Oh Celeste, non avere paura. Vivi la tua giornata per come viene, e non pensarci troppo!
Quella manciata di parole pronunciate a metà tra l’assonnato e il divertito sono rimaste negli anni il mio punto di riferimento più saldo nelle notti difficili. Sono parole che non possono nulla “contro” l’insonnia, ma possono molto “con”. Da quel giorno oltre alla frustrazione, al nervosismo e alla difficoltà di stare senza riposo, io sono sempre stata con la certezza granitica che al sorgere del sole sarebbe stato sufficiente vivere, senza premesse e senza cerimonie.
È grazie a questa certezza che ho imparato negli anni a non temere l’insonnia e a sopportarla senza costruirci sopra troppi palazzi di pensieri. Piano piano, questa fantomatica notte in bianco al mese – che in certi periodi si tramuta come niente in due, cinque, dieci notti in bianco – è persino diventata una sorta di concessione speciale del Signor Tempo alla mia creatività.
Nel 2008 in una notte di insonnia ho aperto il mio primo blog, che si chiamava proprio “Remedia Insomniae”. Lì dentro, durante le mie ore di veglia al buio, ho scritto tantissime poesie brutte che nessuno ha mai letto e che ora saranno disperse chissà dove, a saltare steccati tra centinaia di pecore esauste.
Nel 2012 in una notte d’insonnia ho completato la mia tesi e ho realizzato l’impensabile, e cioè che nella vita andare fuoricorso non ti cambia un bel niente.
Nel 2016 in una notte d’insonnia ho comprato il biglietto aereo più importante di sempre, e dopo pochi mesi sono sbarcata in India.
Nel 2019 in una notte d’insonnia ho scritto un lunghissimo file su Google Drive che s’intitola “Spazio Celeste, idee per condividere la mia ricerca”.
Quasi tutto quello che scrivo, comprese queste righe, quasi tutte le mie piccole grandi decisioni, quasi tutte le mie crisi e le mie preziose inquietudini le devo proprio alla mia insonnia, a quell’annus horribilis, al catering e a mia madre.