Sabato 22 gennaio verso le tre del mattino, proprio nell’ora in cui l’energia dell’etere e dell’aria comincia a prendere in mano le redini dell’universo, ho ricevuto una visita inattesa.
Sono stata assalita da crampi fortissimi alla pancia e dalla ferocia di un sangue avaro, scuro, che non voleva sciogliersi e si aggrappava con le unghie e con i denti ai cornicioni del mio palazzo ovarico.
Ho capito subito che quel sangue non era il solito, veniva dal pianeta del Dolore.
La mia prima reazione è stata quella di “provare a gestirlo” con gli strumenti delle mie pratiche. Ed è così che si è aperta una crepa.
Spesso si insiste sul valore inestimabile della tradizione, ma cos’ha da dire “lo yoga della tradizione” alle ovaie, alle vagine, alle parti rotonde, rimosse e segregate della comunità, a chi non avrebbe avuto accesso ai sacerdozi e ai palazzi nell’epoca in cui le altissime sfere sistemavano e definivano il loro sapere?
Questa crepa deve restare aperta e bisogna guardarci attraverso. La mia relazione con le pratiche spirituali è troppo viva perché io possa far finta di niente, o farmi bastare qualche frase consolatoria. Io queste cose voglio continuare a chiedermele, e voglio smetterla di sentirmi in colpa quando mi allontano dalla tradizione per cercare una risposta che da lì non può arrivare.
Esiste poi un’altra crepa, che non riguarda solo i corpi degli esclusi.
Che cosa ha da dire lo yoga al corpo umano, o meglio, cosa dice al corpo quando è più umano che mai, nella fase acuta del dolore?
La risposta che ho ricevuto più spesso dai miei maestri quando ho chiesto cosa fare di fronte al dolore è stata “Respira”. In un certo senso è vero che questa è la sola cosa da fare, ma non si può sottovalutare un risvolto importante, e cioè che il respiro non libera dal dolore, il respiro libera il dolore. Lo sprigiona.
Quando molliamo le tensioni che ci aiutano a contenere il male, dobbiamo essere pronti a vederlo moltiplicarsi, aumentare, crescere, divampare. La prigione di durezza che costruiamo attorno al dolore è una tecnica di sopravvivenza che non si può smantellare con superficialità.
Forse la verità è che nel dolore non c’è quasi nulla che si possa fare. L’ayurveda, per esempio, insegna a non toccare le parti dolenti, a non trattarle, a non intervenire mai quando il dolore si sta manifestando. L’azione umana può e deve rivolgersi al prima e al dopo, ma non al durante.
Quel durante contiene una forza mistica simile a quella delle divinità che non sono implicate in un rapporto d’amore con l’essere umano. Penso a Zeus che usa la folgore per “segnare” il suo eletto – fulminandolo lo favorisce, lo sceglie, lo illumina, in un certo senso.
Il dolore ha, in effetti, una proprietà illuminante e quando si manifesta accade per essere visto, e perché spazio gli sia ceduto. Anche se siamo tutti alla ricerca di tecniche e soluzioni, penso sia importante considerare che il dolore rientra fra le poche cose che non si possono far succedere o evitare con l’esercizio della volontà e dell’impegno. In questo è molto simile all’amore e alla vita. Vorrei citare anche la morte in questo breve elenco, ma la realtà è che sulla morte abbiamo più margine d’azione, non possiamo evitarla ma possiamo farla accadere.
È curioso che proprio domenica 23 gennaio, durante una mattina di formazione che ho seguito con un certo sforzo, l’insegnante di anatomia ci abbia raccontato che il dolore è uno dei motori fondamentali dell’esistenza. Quando arriva, gli animali si interrompono, il sistema non considera vantaggioso svolgere alcuna attività e sospende tutto, dalla caccia all’erezione. Tutto l’universo obbedisce all’amore e al dolore.
In effetti, proprio durante la notte del giorno prima, mentre provavo a gestire i miei crampi respirando e assumendo varie posizioni, ho intuito che quel dio spaventoso non era lì per essere gestito, ma perché da troppo tempo provavo a gestirlo. Non era lì nemmeno per parlare di noi due, ma per parlarmi delle altre parti dell’esistenza che funzionano come lui, della mia relazione con l’amore e con la vita.