Ognuno ha i suoi modi, no? C’è chi piange, chi ride, chi parla, chi tace, chi cucina, chi cerca abbracci, chi rifugge dal contatto fisico. In quei momenti.
C’è chi dice che le parole non sono abbastanza, ed è vero. Le parole non sono abbastanza. Ma la scrittura più o meno sì, almeno per me. Scrivere così, senza guardarsi indietro, è come andare avanti.
Ah, io sto bene. In questo momento non sono qui per scrivere di me, non mi riferisco alla mia vita, che semmai mi terrorizza proprio perché si tiene insieme egregiamente.
Per anni e anni ho provato a compattare quelle benedette polpette vegane, ma ogni volta era un fallimento. Aggiungi pan grattato, togli i legumi, aumenta la farina di ceci, prova con il lievito integrale. Niente. Poi un giorno ho capito che dovevo solo lasciarle raffreddare.
Ti rendi conto? Non c’era niente che non andasse negli ingredienti, è che mancava un passaggio, e il più semplice per giunta, l’unico in cui non devi prendere decisioni sulle quantità, mescolare o sporcarti le mani con l’impasto. Sta di fatto che oggi le mie polpette vengono alla grande, e io le guardo con perplessità.
Siamo tutti sicuri che siano proprio le mie?
Oggi, che è un martedì di novembre uguale a tutti gli altri, mi sono confrontata con tre dolori, e nessuno dei tre propriamente mio. A volte capita così, che gli spigoli della stanza si illuminino tutti nello stesso momento, e solo allora ti rendi conto che le tue ginocchia sane sono sempre scoperte, e che nonostante gli esseri umani siano dotati di un eccellente sistema di rimozione degli spigoli, si vive sempre aggirandone almeno uno.
In ogni singolo istante della nostra vita siamo esposti a una miriade possibilità diverse, molto più creative e sfaccettate delle due opzioni che di solito consideriamo – che vada tutto bene o che vada tutto male -, e tra queste possibilità potrebbe sempre accadere di beccare lo spigolo. Il tuo, quello che ti aspettava a Samarcanda. Quello che fino ad allora eri sempre riuscita a scansare.
Nei momenti di maggior fragilità mi è molto chiaro che ogni evento andato a buon fine è prima di tutto un evento che non è andato male, e che io non sono dotata di un parafulmini, anche se tutti, quando sottoscriviamo il patto della vita, crediamo di riceverne uno incluso nel prezzo.
Quando affiora questa consapevolezza mi sento proprio come mi sentivo dai venti ai trent’anni, nel mio decennio di aerofobia. Tutti sostenevano che ci fossero delle validissime motivazioni per ritenere che le mie paure fossero infondate e che il mio aereo non sarebbe caduto. Più li ascoltavo, più mi convincevo che fossero pazzi. Vi rendete conto, avrei voluto dire a ciascuno dei passeggeri ridanciani che tritavano taralli in quei minuscoli seggiolini, che nessuna delle vittime di un incidente aereo ha mai avuto una probabilità maggiore della nostra di salire sull’aereo sbagliato? Vi rendete conto che nessuno di loro ha commesso un’imprudenza più grande della nostra?
Le probabilità di fare un incidente in auto sono di gran lunga superiori. Ecco cosa ti senti dire quando hai paura di volare. Chi propina ai timorosi questa soluzione non ha proprio chiaro il nucleo del problema. Il fatto è che in macchina sei tu che tieni il volante, e se succede qualcosa puoi fare affidamento sulla tua prontezza, sui tuoi riflessi, sulle tue risorse. In aereo invece non c’è modo di guidare con attenzione o di controllare lo specchietto retrovisore, né di far presente all’autista che la distanza di sicurezza non è un’opinione. E poi dall’aereo non si scappa.
Quando cerco di ricostruire come ho fatto a superare la paura di volare, mi rendo conto che gli eventi davvero decisivi sono stati due. Il primo, l’Africa. Mentre piangevo disperata su un dodici posti che stava sù per grazia di Dio, la nostra guida turistica con i suoi duecento denti mi guarda ridendo a crepapelle e mi dice due parole: “Just enjoy”. Il secondo, i miei esperimenti di meditazione Vipassana. A furia di frequentare il monastero Zen Sanboji di Milano, avevo capito che il presente è tutto ciò che esiste, se ci si aggrappa al respiro. Su quel volo diretto ad Atene, con il mio mala fra le dita, respiravo e sgravano come se non ci fosse un domani, letteralmente, e a furia di sgranare e respirare mi rendevo conto che nel presente non c’è spazio per la paura.
Ora che ci penso, quei due insegnamenti giunti a distanza di un paio di anni l’uno dall’altro, avevano più o meno lo stesso contenuto: non mi trasmettevano una promessa di eternità, ma un metodo di approccio alla provvisorietà. “Just enjoy” non vuol dire “Dai che ti salvi”, vuol dire “Ridici sopra comunque vada”. Stare nel presente non significa scampare una sciagura con la forza del pensiero, ma concentrarsi sulla qualità della propria moira, della propria parte, della propria frazione di vita, e bersela tutta.
Le tre sofferenze di oggi mi hanno allettata. Da quando questo bambino nuota nella mia pancia sono così fragile che non riesco a ricevere nulla che riguardi la vita degli altri come se riguardasse davvero la vita degli altri. Ogni cosa contiene la mia paura di perdere il germoglio. Stare nella gratitudine non mi aiuta. Quando si è senza pelle per davvero, il dolore del mondo è il proprio. Nessuna cellula di me scampa, se una cellula di te è colpita. Di cosa dovrei essere grata se tu stai soffrendo?
In questi momenti si fa fatica a capire dove finisce la lucidità e dove inizia il terrore. E’ il solito amletico dubbio che mi attanaglia da quell’estate di 25 anni fa: la tragicità epica dei giorni di premestruo è inattendibile e ormonale, o contiene la mia verità sepolta, quella che di solito tengo a bada con gli anestetici del quotidiano?
So che la risposta non c’è, o meglio, la risposta sono l’una e l’altra cosa insieme. In queste giornate dannate e benedette penso che siamo tutti come i pinguini delle isole Falkland, che hanno nidificato in un habitat ideale e se la sono spassata alla grande, fino a quando non è giunto il momento per gli esseri umani di rimuovere le mine e gli ordigni che riposavano tacitamente sotto di loro.
Come si fa ad aspettare il proprio momento? Come si fa a convivere con gli spigoli, con gli incidenti aerei, con i dolori degli altri, con la sensazione di essere fragili ed esposti? Non ho una risposta, ma penso a Indiana Jones e alla sua fame di vita. Al suo coraggio indomito di saltare da un vagone all’altro, da un leone all’altro, da una tessera all’altra di quel mosaico che doveva comporre l’impronunciabile nome di Dio.
Penso anche a quel mio compagno che in terza elementare ha perso il sorriso ma poi l’ha ritrovato, a quella persona che due anni fa si è rimboccata le maniche e oggi fa cose bellissime nonostante il dolore. Penso a mia mamma che ne ha passate di cotte e di crude ma non si è mai arresa a vivere nel lamento, e penso a chi sceglie il lamento come stile di vita, come amante, come tecnica di sopravvivenza.
Mi tiro fuori dal mio materasso. Stasera voglio provare a cucinare le polpette di funghi shitake.
A tutte le persone che proprio oggi sono chiamate al salto e alla loro traversata.
Che riescano a farne tutta la vita possibile.