Io ho fatto il liceo linguistico e subito dopo lettere antiche, ma l’importanza del contesto me l’ha insegnata il Grunge.
Non sono mai stata una grande fan dei Nirvana da ragazzina, li trovavo grezzi e rugginosi, Kurt Cobain era troppo biondo e biascicante per sedurmi. Mi piaceva solo “The Man Who Sold the World”, che infatti non era loro.
Poi è successo che ho iniziato a suonarli, e lì è cambiato tutto.
Io la chitarra l’ho presa in mano per la prima volta a undici anni e fino ai venti me la sono portata dietro anche in vacanza, eppure non sono mai riuscita a suonarla per davvero e il poco che sapevo fare l’ho disimparato negli anni in cui credevo che da adulti certe cose o si fanno sul serio o è meglio lasciar perdere. Per fortuna quel periodaccio è passato e ora credo solo nelle cose che non faccio per davvero.
Fatto sta che un giorno mi è venuto in mente di provare a suonare Smells Like Teen Spirit. Non per altro, volevo cantarla nella versione di Tori Amos. Come stavo dicendo io di musica non capisco niente, ma le orecchie ce le ho sane, con le coclee e tutto il resto, e pigiando la corda giusta sul capotasto giusto ho ascoltato accadere qualcosa di molto, molto speciale. Incuriosita, mi sono messa a suonare altre canzoni come Polly e In Bloom, la mia preferita su tutte, e ho scoperto che il miracolo si ripete sempre.
È difficile spiegarlo con il linguaggio della musica.
Immagina di passeggiare in un bosco verdeggiante e profumato, il cielo è terso e sei serena. Non c’è niente che lasci presagire un pericolo. Inaspettatamente, però, l’atmosfera cambia: in teoria la natura attorno a te è la stessa, ma tu intuisci tutto ciò che ingenuamente non stavi considerando. Arriva la paura. È una sensazione simile a quella che provi quando una persona del cuore, una persona fidata, si rivela capace di mentirti con freddezza.
Il fatto è che gli accordi dei Nirvana non sono niente di che, è la sequenza che li collega a rendere tutto unico.
C’è sempre qualcosa di luminoso che improvvisamente cambia volto e diventa oscuro. Il la maggiore e il mi maggiore, ad esempio, sono accordi fioriti, pieni, quasi festosi. Il la maggiore è lilla, il mi maggiore è verde smeraldo. Quando li usa Kurt Cobain, quando li suona attraverso di te, diventano pece liquida, appiccicosa e sola. Ti muoiono in mano. Basta metterci subito dopo un sol. Basta tenere stretti il fa maggiore e il fa diesis. Basta cambiare gli accordi in levare.
Io non ho mai suonato nulla che mi porti così vicina a quella soglia che separa la luna chiara da quella scura, la pienezza dal vuoto, la vita dalla morte, la ricchezza dalla miseria.
Mi colpiscono due cose. La prima è che l’effetto finale si rivela sublime, intermedio, onirico. La vibrazione è quella che sentiresti passeggiando nel paese di Alice Liddell, fra gli scacchi matti e le mezze verità. La seconda è che Kurt Cobain non usa strumenti speciali: i suoi accordi sono quelli di tutti, più o meno li può suonare anche una come me.
Il suo genio è nel contesto. Intendo dire che quel contesto è il coniglio biondo che l’ha creato. È così che deve vibrare un giovane padre affamato e anoressico insieme. Mi chiedo se il nome della sua Frances Bean si traduca “Francesca Fagiolo”. Lo spero tantissimo, farei una figlia anche io solo per darle questo nome.
Mi chiedo se funzioni così anche per chi fa fatica a pigiare tutte le corde di un barré.
Chissà se anche noi, se anche io, mettiamo insieme i pezzi semplici della vita e costruiamo i nostri ambienti e le nostre melodie, anche senza saper suonare, anche senza saper entrare nelle chitarre degli altri.