Tra tutti gli stati d’animo che questa gravidanza sta trascinando sotto alla mia lente d’ingrandimento ce n’è uno più bizzarro degli altri. Forse, mi dico, sembra così bizzarro perché nessuno ne parla.
Questo stato d’animo è il senso di colpa per tutta la felicità che non riesco a vivere, il senso di inadeguatezza per la serenità che non riesco a trovare, e che – ça va sans dire – ho già cominciato a non saper trasmettere a mio figlio.
Quando si pensa a una donna in gravidanza, è subito esterno giorno. La luce naturale arriva da dietro e invade lo sguardo dell’osservatore come un’ipnotica radianza. Curve morbide, occhi languidi, una mano curata, senza smalto, sfiora la rotondità del ventre. Non si chiama ostentazione ma armonia. Cammina lentamente guardandosi intorno con fare trasognato, fa l’amore con la vita, tutta assorbita in uno stato di grazia pacato, arruffato e domestico, dolce e intontito come la domenica mattina.
Peccato che la mia gravidanza della domenica contenga anche l’angoscia.
Il benessere e l’agio che provo in questo corpo finalmente fiero della sua rotondità, finalmente autorizzato ad assumere una forma umana, contengono anche l’amarezza dell’attaccamento e la paura dell’illusione. La mia mente è offuscata e sorniona quando si tratta di buffe dimenticanze che diventano aneddoti da raccontare agli amici inteneriti, ma per tutto il resto del tempo, è precisa e ficcante come una lama. Da quasi cinque mesi a questa parte, la mia mente è chirurgica nell’alimentare il circolo delle preoccupazioni, e spietata.
La mia gravidanza, ora lo dico, è anche e soprattutto un groviglio di paure. E non parlo delle paure che precedevano la comparsa di quelle due strisce rosse sul test, e che si sono sciolte, contro ogni aspettativa, con la facilità della neve al sole: la paura di perdere la mia autonomia e il mio tempo, il mio lavoro, la mia identità e le mie passioni.
Parlo di due paure, due di numero, molto più nitide e soverchianti: la paura di vivere nuovamente il dolore dell’aborto e la paura della malattia. Che significa la paura di perdere il minuscolo oggetto di un amore già immenso, e la paura di non essere in grado di amarlo come si deve, incondizionatamente, comunque sia. La paura della morte e la paura della vita.
Quando una donna incinta prova a essere onesta, e compie l’imprudenza di rispondere per davvero agli ultimi come stai? della sua vita – ben presto, si sa, la domanda diventerà come sta il bambino? –, è facile che si senta rispondere smettila, solo pensieri positivi! Questo è il periodo più bello della tua vita. A dire la verità esistono anche risposte, iniziative e creatività ben peggiori di questa, ma magari ne parlerò in un altro post.
Io vorrei poter dire per prima cosa che no, le caratteristiche di un periodo non si assegnano a priori e non si può modellare il proprio stato d’animo sulle aspettative mondiali. E poi vorrei anche poter dire che no, questo non è il periodo più bello della mia vita. Lo diventerà, probabilmente, nella trasfigurazione del ricordo, quando e se avrò scampato il pericolo, ma non ora, non adesso.
Per il momento, se posso essere sincera, questo è il periodo più mostruoso della mia vita, nell’accezione che l’aggettivo “mostruoso” aveva in origine, quando ancora sapeva significare il bene e il male allo stesso tempo, e indicava semplicemente qualcosa di straordinario, prodigioso, terrificante, eccezionale.
Ho sempre pensato che l’Italiano abbia lasciato andare troppe voci medie. Quasi tutte le nostre parole hanno scelto da che parte stare, se essere positive o negative, bianche o nere, felici o tristi. E invece avremmo disperatamente bisogno di aggettivi che sappiano contenere la complessità del reale e resistere alle classificazioni della nostra logica binaria.
Ecco, la mia gravidanza è una voce media, un viaggio sconvolgente nella terra dell’incertezza in cui tutto è possibile, anche gli scenari più spaventosi, e niente è sotto controllo.
Sono nuda, completamente nuda, e cammino un giorno per volta, un passo per volta, in una selva che non conosco, fatta di esami probabilistici, finti positivi, appuntamenti in ospedale anche se non sei malata, mesi che durano cinque settimane e qualche giorno. Non ho prontuari, non ho vent’anni e per la maggior parte del tempo mi sembra di non avere nemmeno predisposizioni.
Mentre imparo a farmi largo con l’accetta in questo territorio accidentato che mi separa da mio figlio o da mia figlia, per ora non so, mi chiedo come sia possibile pensare che possa esserci spazio per la serenità. E di fronte ai molti inviti in questa direzione, non posso fare altro che sentirmi l’unica, sentirmi inadatta, sentirmi sola, sentirmi in colpa.
E mentre mi chiedo se esista almeno un’altra donna che non ha passato nove mesi a scrivere lettere a suo figlio e a contemplare il miracolo della vita, mi dico che forse, se pure fosse, a me va bene così.
Sarà che il desiderio di avere un figlio è arrivato quando ormai avevo già raccontato a tutti che mai nella vita ne avrei voluto uno, sarà che ho imparato a capire che per fare una torta genuina occorre sporcarsi di farina fino al gomito e conciare tutta la cucina, sarà che voglio presentarmi a questo bambino con la mia vera faccia, ma io, in fondo in fondo, sono consapevole che questa gravidanza mostruosa è proprio la mia storia.
E vorrei poter dire a un’altra persona che aspetta un figlio,
non sei sola in questo grandissimo casino.
Quando vacilli, ripensa alla tua vita.
Hai tutte le risorse per attraversare il bosco.