Parliamo di una cosa che chiamerei “ipocondria”, se solo dare un nome alle proprie inclinazioni non fosse così pericoloso, se questi nomi complicati, affascinanti e spaventosi non rischiassero di tramutarsi in destini, condanne o – peggio – rifugi.
Chiamiamola allora “tendenza a sviluppare un’apprensione eccessiva per la salute propria e delle persone amate”. Meglio, no? Sembra tutto molto più transitorio. Per brevità, da qui in avanti la chiameremo i.
Del settore i, io sono nuova. Sono una specie di stagista. Mi esprimo in questo ambito da qualche mese a questa parte, e con un discreto successo.
In realtà credo sia realistico supporre che se sono così portata è perché nell’i, in qualche modo, c’ero già dentro fino al collo, ma senza rendermene conto. Non sono mai stata una di quelle persone che fanno mille esami e visitano duecento specialisti a settimana alla Carlo Verdone.
Tutto l’opposto: io dal dottore non ci sono praticamente mai andata negli ultimi dieci anni. Quel referto, quella diagnosi, quella verità io non ho mai voluto saperli. Probabilmente la mia i ha espresso il meglio di sé in questa tecnica di evitamento poco gettonata nel settore. Una variante taciturna, sorniona e insospettabile di i.
A essere proprio sincera ricordo un paio di casi in cui ho perso il sonno per paura di una malattia che non c’era. Per risolvere la preoccupazione non è stato necessario fare esami: mi sono limitata a sommare una notte insonne all’altra, convivendo con il fantasma per un tempo ragguardevole, oltre il quale era sensato ritenere che se fossi stata davvero malata sarei già morta.
Il mio meccanismo di controllo dell’i è saltato da quando gli esami devo farli per forza, e i referti devo riceverli volente o nolente, perché ora “tutto questo” non riguarda più soltanto me, ma anche lei, il mio cucciolo di essere umano. Il suo coinvolgimento nella losca faccenda della mia salute ha complicato molto le cose.
Il lato positivo è che in questa situazione la mia i non può più nascondersi, e io non ho altra scelta se non quella di vedere, di riconoscere e di provare a comprendere questa “tendenza”.
La caratteristica principale della mia i è che si placa solo quando c’è qualcosa che non va. Lo so, sembra strano, ma è proprio così. Se esiste un oggetto, un referente, un sintomo su cui posizionare lo sguardo, la situazione è più o meno sotto controllo.
La mente sa su cosa concentrarsi, su cosa fissarsi, si sente capace, in un certo senso, di padroneggiare gli eventi e di circoscrivere la quota di rischio da sostenere. Si tratta, più o meno, di guardare in faccia il proprio nemico e tirare un sospiro di sollievo, un po’ come a dire “eccoti, ti vedo, so quali sono le tue mosse e posso prevedere la portata delle loro conseguenze”.
Di solito nella relazione con il sintomo c’è sempre un’escalation: mi preoccupo, disegno scenari tragici, provo a ridimensionarli tra me e me, tento di minimizzare. Allora la percezione si infuria, penso alla mia bambina, mi sfogo senza trovare elementi concreti nel conforto degli altri, mi decido a scrivere al medico, faccio eventuali accertamenti, faccio voti, prego, attendo l’esito con angoscia e tutto finisce in una bolla d’aria.
Fine. Tanto rumore per nulla.
Nell’istante preciso in cui ricevo un referto rassicurante mi rendo conto di quanto fosse infondata la mia preoccupazione e solo allora, in modo quasi beffardo, cominciano ad affiorare alla mente un insieme di elementi che non avevo voluto considerare, e che da soli sarebbero bastati a sollevarmi dalle mie ansie.
Il senso di appagamento e quiete che provo quando il pericolo è scampato non si può descrivere, è uno stato di estasi che comprende spergiuri e promesse di cambiamento, ogni volta “una volta per tutte”. Ma dura poco.
A distanza di qualche settimana – in questo periodo di cambiamento repentino sarebbero più onesto dire a distanza di qualche giorno – emerge una nuova preoccupazione, un nuovo dettaglio che scompagina l’ordine, un nuovo elemento su cui fissarsi.
Un neo impercettibile sulla guancia che forse c’era già o forse no. Il ricordo di un comportamento irresponsabile avuto subito prima del test di gravidanza (quel maledetto bicchiere di vino friulano! ma perché l’ho bevuto, io che non bevo mai?). Un gonfiore sospetto alle mani. La sensazione che subito sotto al costato ci sia una pesantezza. Non avevo forse letto che in gravidanza il fastidio ai reni è un brutto segno? Che poi, a pensarci bene, dove mai saranno naufragati i miei reni in tutto questo movimento di zolle, organi, acque e isole?
E il ciclo ricomincia.
Mi sono persa a descrivere tutto questo non solo per il piacere di mettere in fila certi puntini alla Woody Allen, ma anche e soprattutto perché desideravo spremermi le meningi e tirare fuori il “perché”.
A furia di scriverne mi sono fatta un’idea.
Chi ha la “tendenza a sviluppare un’apprensione eccessiva per la salute propria e delle persone amate” di solito crede che il nemico sia il disagio. Il disturbatore, il persecutore, è solitamente identificato nel sintomo, nei sintomi, in un corpo che non riesce a stare in pace mai e butta fuori, butta fuori, butta fuori.
Io sono fermamente convinta che le cose vadano al contrario e che il vero nemico, il tarlo con cui non si riesce a convivere, è la quiete.
È la quiete a terrorizzarmi, a terrorizzarci, è il silenzio. È la superficie dell’acqua quando è piatta, è la pace dei sensi quando ci è concessa, è quel vuoto minaccioso che chiamano salute, quel rischio senza percentuali che si chiama serenità.
Per me non c’è alcun dubbio che sia così. Come i topi cominciano a correre in soffitta quando tutto attorno dorme, i pensieri intraprendono la loro ricerca inquieta di un problema se la vita è così impietosa da lasciarci tranquilli. Anche in questo caso, la paura della morte arriva per salvarci dalla paura molto più grossa della vita.
Nell’ampiezza indefinita della quiete siamo esposti a un rischio non calcolabile, non contenibile, non affrontabile: il rischio del potenziale, della malattia che potrebbe essere, del nemico che ancora non conosciamo e che di default è sempre il più pericoloso di tutti.
Di fronte a questo gigantesco “potrebbe essere” siamo spiazzati, non sappiamo quali armi utilizzare, non sappiamo quanto sale ci servirà per tracciare il cerchio della protezione, e non sappiamo nemmeno qual è la posta in gioco. È molto più facile, a quel punto, precorrere i tempi, intervenire attivamente sulla materia grezza della realtà e distorcerla quanto basta per forgiare da sé il proprio rischio, un po’ come prendere la telecamera e girarsi da soli il proprio film.
Meglio un nemico grande come un neo oggi che un nemico sconosciuto domani.
Esiste, a onor del vero, una possibilità che nessuna persona in preda alla sua i è in grado di concepire, e che sarebbe risolutiva se bastasse considerarla con la mente per sentirla accadere, per farle spazio nel corpo. Mi riferisco alla possibilità che nella distesa della quiete il nemico semplicemente non ci sia, che il silenzio del presente possa essere genuino, che dietro al cespuglio di gelsi non si nasconda nessuna belva feroce.
Da sempre l’animale che temo di più è lo squalo. La cosa strana è che il volto della mia paura non è il predatore che attacca e inzuppa di sangue le acque del mare. Io temo la pinna, quel dettaglio sfuggente che si intravede appena e che silenziosamente si avvicina mentre la vittima nuota, scherza, ride.
In realtà, se ci penso bene, anche questa affermazione non è proprio esatta, perché spesso e volentieri – mi imbarazza molto dirlo, ma questa è la verità – io dello squalo ho paura anche in piscina, anche nei luoghi in cui è impossibile scorgere la sua presenza.
Allora forse ciò che temo davvero non è lo squalo ma l’acqua placida, spericolata, quieta.
La mia mente ha bisogno di immaginare un nemico perché non riesce a sostenere il pensiero che le acque dell’esistenza possano essere veramente tranquille. E allora occorre fare di tutto per individuare la pinna che non c’è, e che nel suo esserci e non esserci sia al contempo rassicurante e sincera, concreta ed evitabile.
Ecco perché, mi dico, la tendenza all’i si amplifica proprio quando tutto sta miracolosamente andando come dovrebbe.
Perché è in quegli istanti e non in altri che occorre fidarsi della cosa più incredibile: che la vita possa essere semplice davvero, una volta ogni tanto, anche per noi.