Tra le molte antiche pratiche a cui l’inglese ha sottratto ogni granello di polvere e di fascino c’è anche il “nesting”, quell’istinto a nidificare che a un certo punto prende tutte le mammifere, umane comprese.
Nidificare significa prendere ciò che si ha a propria disposizione e sistemare tutto vicino, in un giaciglio capace di raccogliere un peso nuovo e specifico, quello di un cucciolo fresco come un uovo che presto sarà affidato alle braccia forti della gravità e della terra.
Nella casa di via Lambro i mammiferi sono due, e si scambiano volentieri le mani e gli istinti. È così che la nidificazione sembra coinvolgere più Giancarlo che Celeste. Quasi tutti i giorni Giancarlo mette insieme pezzi di legno, chiodi e pazienza per costruire il nido che abbraccerà sua figlia.
Io sto facendo lo stesso, ma in modo un po’ diverso. Mentre lui sistema il presente, io sistemo il passato.
Per preparare l’arrivo di una bambina nuova, l’ultima falange di una lunga storia, ho capito che a me spetta il compito di sistemare l’intera mano di cui entrambe facciamo parte. Una mano malconcia, ammaccata, slogata, la mano delle nostre madri, delle nostre nonne, delle nostre bisnonne. Per farlo non c’è un metodo, si procede accostando quel poco che c’è: nomi, ricordi, racconti. Buchi, cerotti, ferite, lividi.
La mia è sempre stata una tipica famiglia del nord Italia, ristretta e chiusa come un pugno, e io ho vissuto tutta una vita credendo che le cose importanti, quelle che ti segnano davvero, potessero accadere soltanto tra noi quattro, tra me, mia madre, mio padre e mio fratello. La mia linea materna di sangue è sempre stata solo lei, la mamma, ed è di lei e di noi che io mi sono alacremente occupata, prima per separarmici, per darmi forma, e poi per ritrovarci, per darci pace.
Se dovessi indicare il nodo, l’articolazione della mia storia che ha davvero cambiato tutto, indicherei senza dubbio la nostra. Risanare la giuntura che collega la testa del mio osso all’acetabolo di mia madre è stato come risanare la mia vita intera, rimetterla in funzione. È anche da questo contatto che proviene mia figlia.
Eppure, da quando la mia pancia si è gonfiata, da quando mi sono riempita di questa bambina figlia della primavera, ho cominciato a comprendere con chiarezza che il mio e il nostro futuro, la mia e la nostra interezza, dipendono anche dalle donne che vivono fuori dal pugno: dalle nostre nonne, dalle nostre zie, dalle nostre antenate.
Me ne sono resa conto subito, quando l’intuizione che nel mio grembo potesse esserci una femmina sembrava la conseguenza naturale di una lunga storia ancora da sistemare.
Me ne sono resa conto specialmente nei momenti di paura e di solitudine, in cui avrei voluto chiedere aiuto alle nostre defunte, e non sono stata in grado di farlo.
Me ne sono resa conto anche quando ho provato a immaginare per me e per mia figlia una nascita antica. Chi ci sarebbe stato accanto a noi attorno al fuoco, se fossimo appartenute a quell’epoca lontana in cui partorire significava a tutti gli effetti affidarsi alla nutrice e alla madre oscura, nella speranza che la vita, in un moto di generosità, risparmiasse sia il passato che il futuro, sia la madre che la figlia?
Nessuna ci sarebbe stata, nessun’altra che noi tre. Tua nonna, tua madre e te. Mia madre, me e mia figlia.
Le donne anziane della nostra famiglia, quelle con i capelli bianchi e l’utero allenato, sono tutte perdute. Perdute alla memoria e anche alla storia. Le bisnonne di mia figlia, le mie nonne, sono profili che non ho conosciuto, o che non hanno voluto conoscermi.
Di mia nonna materna ricordo le arance, le scale e le tazzine.
Le arance funzionavano così: la nonna mi prendeva sotto alle ascelle e mi faceva sedere sul ripiano della cucina. Non so perché ma le persiane di quella casa erano sempre abbassate. Forse la malattia le pesava già sulle palpebre. Lei tagliava un’arancia a metà, senza sbucciarla, e io dovevo infilarci dentro la faccia. Il succo era dolce come le parti rosse e amaro come le parti bianche. Avrei voluto che qualcuno selezionasse per me solo le parti rosse. Per quanto mi sforzassi di bere tutto, l’arancia si teneva sempre qualcosa per sé.
Le scale erano la mia sala d’attesa. Era lì che mia madre mi faceva aspettare mentre curava la nonna. Le scale erano fredde, facevano paura. Portavano troppo in basso o troppo in alto, verso la cantina buia dove il vino fermentava in grosse taniche di vetro scuro, o verso la soffitta che sapeva di muffa, dove tutto era impacchettato in vecchi fogli di giornale e ogni cosa mi terrorizzava, anche le bambole.
Le tazzine erano i resti della nonna. Tutte sistemate in un’immensa credenza, oltre una porta di vetro smerigliato che il nonno apriva solo ogni tanto con un giro stridulo di chiave, quando glielo chiedevo per favore. Si entrava, si tirava la cinghia ruvida delle tapparelle e un fascio accecante di sole faceva brillare le tazzine della nonna. Erano tazzine regali, con i bordi dorati, di porcellana bianchissima e sottile, dipinte di fiori, di greche, intarsiate.
Di mia nonna paterna avrei potuto accumulare sedici anni di ricordi, ma non ho trattenuto molto a parte la bellezza del suo nome, Flora, che avrei dato a mia figlia se non fosse stato carico di conflitti, di atti mancati e di indifferenza. Di lei ricordo soprattutto una televisione sempre accesa e la storia di una donna con il volto bendato e lunghissimi capelli color miele.
Delle mie quattro bisnonne non conosco nemmeno tutti i nomi. Celestina, che abitava in città, a Como, Primina, appuntita e secca come il ditino di Gretel, Romilda, che faceva preferenze per il figlio maschio, e poi lei, uno dei grandi punti interrogativi della mia storia, la mia bisnonna trovatella che veniva da Magenta.
Accanto a questa linea di sangue flebile, più simile a un capillare che a una vena, ci sono solo due diramazioni, entrambe interrotte: la zia che ho perso una sera qualsiasi, a pochi passi da casa mia, subito dopo averle raccontato un paio di cose sulla mia prima gita scolastica di due giorni, e la zia che è sparita dalle nostre vite per sua volontà, senza farci sapere più nulla di lei, nemmeno il nome del paese in cui vive.
La zia che se n’è andata una sera qualsiasi mi ha svelato che la vita è anche crudele e che il dolore può insinuarsi in modi strani nelle nostre esistenze. A volte si tramuta nella fobia del telefono che squilla. Da un momento all’altro e per sempre, ogni volta che senti un telefono suonare c’è una morsa nello stomaco che ti ricorda la rapidità con cui tutti possono andarsene.
La zia che è sparita nel nulla mi ha lasciato un cumulo di rabbia e di sgomento, ancora più pesante da portare perché i miei ricordi insieme a lei sono fra i più nitidi della mia infanzia. Lei, la sorella di mia madre con la giovinezza scritta nel nome, aveva un paio di scarpe con il tacco che mi lasciava sempre usare e una scatola di trucchi che sapeva di peccato mortale, di indecenza, di emozione. Ascoltava Ron dalla mattina alla sera. Adoravo cantare con lei “Vorrei incontrarti fra cent’anni”.
Vorrei incontrarti fra cent’anni, lo vorrei ancora.
Nessuna di queste donne sa che sta per nascerle una nipote, che una nuova falange si aggiunge alla nostra mano ammaccata.
All’unica donna viva non ho potuto raccontarlo, e forse, se anche avessi potuto, avrei scelto di non farlo. Non ho mai lavorato su questa rabbia, mi sono sempre detta che in fondo una zia non è poi così vicina, non è poi così importante.
Alle molte donne morte non ho avuto il coraggio di dire niente. Ognuna di loro, per qualche ragione, mi sembra troppo lontana e difficile da interpellare.
Eppure questa notte, dopo duecentododici giorni di gravidanza, di paure eccessive e di insicurezze, ho aperto gli occhi e mi sono resa conto che senza coinvolgere questo concerto di donne io non posso sentirmi tranquilla, non posso pretendere di trovare la fiducia e la serenità. La mia matassa di preoccupazioni è fatta anche dai molti fili interrotti che mi legano – anzi, che non mi legano – alle altre mammifere della mia famiglia, che prima di me sono state in grado di essere madri.
Come si fa a dare la vita senza una protezione dal regno delle morte?
Questa notte ho capito che il nido di mia figlia deve contenere anche e soprattutto i pezzi di queste storie smembrate, le ossa di queste donne spezzate, i perché che io non ho saputo chiedere e i nodi che non ho potuto collegare. Ora è venuto il mio tempo di riprendermi questi legami, in silenzio e in contumacia, attraverso i cimiteri, le parole e le fotografie, ma anche con la preghiera, con il simbolo e con il rito.
È giunto il momento che questo pugno stretto e amorevole che contiene me, mia madre e mia figlia, compatto e carico di energia come un sigillo, allenti la presa e si apra.
Nei prossimi sessantanove giorni circa, le vostri nipoti dimenticate avranno bisogno di tutte voi.