Queste oscure materie

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Ho sempre desiderato essere una di quelle persone che divorano fantasy a colazione, ma la verità è che questo genere di libri mi annoia a morte. Non riesco a seguirne le trame e non mi appassionano i personaggi. Fra tutti i fantasy che avrei voluto amare, la trilogia di Philip Pullman occupa un posto speciale. Ho provato a leggere La bussola d’oro almeno quattro o cinque volte dall’adolescenza ad oggi, faticando come un salmone per risalire oltre la centesima pagina. In nessun caso sono riuscita ad avere la voglia di seguire Lyra nella sua avventura, ma in tutti i casi la questione del “daimon” mi ha incantata per almeno un paio di capoversi. Già dalle prime pagine, infatti, il lettore scopre che ogni essere umano di quell’universo fantastico è indissolubilmente legato al suo “daimon”, un animale che gli somiglia, che lo segue come un’ombra e che prova le sue stesse emozioni.

Tentativo di lettura dopo tentativo di lettura, questa metafora geniale è cresciuta con me e si è trasformata in uno spunto di riflessione sempre più fecondo. A quindici anni “daimon” significava “demone”, e mi ero convinta che gli animali del libro dovessero rappresentare la crudeltà della natura. A diciassette anni conoscevo Socrate, e avevo capito che i “daimon” altro non erano che un simbolo dell’anima umana. A vent’anni mi domandavo come sarebbe stato il mio “daimon” e quali caratteristiche avrebbe avuto la mia anima se qualcuno avesse tentato di rappresentarla. A venticinque anni “anima” era un termine ormai troppo generico, voleva dire tutto e niente, e la metafora di Pullman mi sembrava approssimativa. Recentemente Chiara mi ha prestato la sua copia della Bussola d’oro per sostenermi nell’ennesimo tentativo di lettura. Naturalmente ho fallito, ma in questa fase della mia vita la metafora del “daimon” mi sembra piena di significato come non lo è mai stata. Nei miei trentatrè anni, “daimon” significa “corpo”.

E’ già da qualche tempo che provo a sviluppare e a trasmettere l’idea che il corpo sia il nostro animale, dotato in qualche misura di una vita propria e di un linguaggio autonomo che spetta a noi imparare a decifrare. Il corpo ha esigenze precise e definite che coincidono solo in minima parte con ciò che la mente vuole, e proprio questi bisogni primordiali raccontano una verità affascinante: il nostro corpo appartiene per metà a noi che ce ne occupiamo e per l’altra metà alla natura a cui tenta costantemente di fare ritorno. Il sonno che cala con la sera, la fame e l’istinto verso ciò che nutre, la pulsione della sessualità, le protezioni e le compensazioni fisiche di fronte alla paura, l’istante in cui uno dei cinque sensi anticipa il pericolo, il rapporto con i fenomeni atmosferici e una gamma infinita di altri momenti ci permettono di intuire l’animale – il “daimon” – che ci è stato momentaneamente affidato.

La pratica dello Yoga – almeno per come io la concepisco – è per prima cosa un metodo di approccio a questo delicatissimo animale, un modo per riprendere o cominciare una conoscenza disinteressata e fondata sull’amore: con apertura, sincerità e cautela, ogni giorno il praticante stana il suo animale, gli dedica del tempo e impara a dialogarci. Come ogni animale, anche il corpo si lascia avvicinare quando ritrova la fiducia nel suo umano. Come ogni daimon, il corpo si manifesta pienamente quando non c’è giudizio né aspettativa, e i cinque sensi (o i sei, o i mille che siano) concorrono tutti al compimento del progetto più importante per ogni Essere: la realizzazione della sua vera natura.

Non credo che saprò mai come finisce il libro di Philip Pullman, ma sarei davvero felice se la bussola d’oro servisse proprio a questo, a segnare la strada verso se stessi.

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