Quando avevo 8 o 9 anni a scuola si cantava Hanno ucciso l’uomo ragno o Io penso positivo. Sull’uomo ragno non ho mai avuto niente da ridire. Sul pensare positivo, invece, sì.
A 20 anni, quando frequentavo la Statale di Milano, pensare positivo era roba da sempliciotti. Chi come me andava in giro con le clark, studiava i lirici greci e si ispirava a Jean Paul Sartre era abituato a pensare che il prezzo da pagare per tutta quella bellezza fosse un filo di tristezza. È come arrivare a Venezia dal mare, o passeggiare per i vicoli di Noto. I balconi assolati che crollano sotto al peso dei fichi d’India. Non puoi pretendere addirittura di sopravvivere.
Il problema è che la decadenza è un gioco affascinante se dura poco. Alla lunga cominci ad assomigliare anche tu al barocco siciliano e alle fondamenta veneziane. Per tirarsi fuori da quelle sabbie mobili, occorrono un bel po’ di lucidità e un residuo di autoconservazione che aiuti a inquadrare una piccola verità: la tristezza, alla fin fine, è una scelta.
Dicevo che nella mia bolla non era ammessa alcuna forma di ottimismo. Nella mia bolla – anzi, nella bolla non mia che mi ostinavo a frequentare – la realtà era una voragine, un compromesso lacerante da cui si provava a evadere arrampicandosi sui libri, rifugiandosi in altre epoche, proteggendosi con l’arguzia, con il sofismo o con le citazioni. Il pensiero positivo era una sorta di “filtro ingenuità” disponibile solo sugli smartphone degli altri.
Peccato che di lì a poco, quando lo yoga si è accomodato nella mia vita come un gatto sul puff del divano, serafico e inamovibile, io sia entrata a far parte precisamente del mondo di questi “altri” che del pensiero positivo facevano la loro bandiera.
Finché si è alla ricerca di sé e della propria autonomia, cambiare bolla significa cambiare identità, cambiare linguaggio, stereotipi, espressioni e immaginario. E così, nel giro di qualche anno, il mio sistema di pensiero si è trasformato insieme al mio corpo, e con il corpo e il pensiero sono cambiati i miei valori, il mio atteggiamento, le mie priorità, la mia voce e i miei occhiali. Sono letteralmente saltata dalle braccia di Sartre a quelle di Yogananda, dalle clark ai piedi nudi, dai reumatismi da biblioteca alle verticali sulla testa.
L’effetto iniziale è stato inebriante. Dopo tutta la marcescenza, la magrezza e lo snobismo degli intellettuali, il pianeta degli spirituali mi sembrava il paese delle meraviglie. Sangue che pulsa, occhi vispi, corpi elettrici e, soprattutto, il coraggio di benedire la vita, in senso letterale. Il coraggio di dirne ogni bene sempre, e di pensare positivo.
Avevo la necessità impellente di trovare un sistema che legittimasse una qualche forma di amore per la vita e mi portasse via da quella sponda del lago su cui crescono solo i salici piangenti, e così mi sono concessa di abbracciare con ogni fibra quello strano modo di fare ricerca attraverso il corpo – un modo che inizialmente non era molto più che una panacea per me. Eppure, anche nei periodi in cui facevo grandi abbuffate di benessere e benpensare, alla storia del pensiero positivo non ci ho mai davvero creduto.
Il problema non era la mancanza fede: la maggior parte delle cose in cui ho creduto e credo sono assolutamente incredibili. È che nella storia del pensiero positivo c’era qualcosa non tornava.
Ancora oggi, ogni volta che qualcuno mi invita a “pensare positivo” – e di recente, per varie ragioni, capita spesso – mi sento come se mi venisse chiesto di tapparmi le orecchie con le mani, chiudere gli occhi e iniziare a gridare, per nascondermi e nascondere il volto scandaloso dell’esistenza. Ho sempre sentito che l’ottimismo magico-propiziatorio, al di là delle apparenze, non aveva niente di diverso dal pessimismo da cui ero fuggita. “Quelli là” si difendevano con la nausea e la decadenza, “questi qua” con il pensiero positivo.
Quasi cinque anni fa, nel 2017, mentre camminavo nel mercato di Pushkar con i miei genitori, fra la polvere, i colori delle spezie e la gente indaffarata a comprare, vendere, dormire e pregare, mi è passata di fianco una mucca con cinque zampe. La quinta zampa spuntava fuori dalla schiena, come l’innesto di un ramo di limoni su una pianta di mandarino. Quella visione era così disturbante e scandalosa che ho istintivamente cercato di distrarre i miei genitori: preferivo non vedessero. Volevo proteggerli dall’India, e proteggere l’India dal loro giudizio. Sono arrossita tra me e me, e ho pensato “India, ma che cavolo di figure mi fai fare? Passino i topi, passi la puzza, ma una mucca con la zampa sulla schiena no, dai!”.
Dopo qualche giorno, quando la connessione internet è tornata, ho fatto una rapida ricerca su google e ho scoperto che le “mucche con cinque zampe, una su schiena” in India sono sacre. Avevo visto un prodigio. E avevo sottratto ai miei genitori la possibilità di vederlo. Sono tutt’ora convinta che quella mucca ci abbia messo lo zampino, perché proprio a Pushkar, a distanza di qualche ora dalla visione, seduti su tre sgabelli bassissimi e con le ginocchia in bocca, io e i miei genitori siamo riusciti ad avere il confronto più sincero e importante della mia storia, della nostra storia.
Il fatto è che la vita, per come la vedo io, è più simile al mercato di Pushkar nel deserto rajasthano del Thar che alla stazione shinkansen di Tokio. È più simile a Napoli che a Vienna, per dire.
“Pensare positivo” significa precludersi la possibilità di vedere la mucca a cinque zampe. Significa resistere al caos dell’esistenza.
Io non voglio vivere schivando i colpi o facendo slalom tra gli ostacoli. Non voglio augurarmi che le mie mucche escano sempre con quattro zampe. Non voglio procedere a sospiri di sollievo. E non voglio nemmeno proteggermi dietro al nichilismo, che è la stessa cosa, anche se sembra molto diversa. Non voglio muovermi con paura nel mondo, affidando la mia felicità a quell’irrisoria percentuale di possibilità che tutto vada secondo i miei piani.
Non voglio pensare positivo: voglio sentire l’abbraccio. Voglio aprirmi alla possibilità che qualsiasi deformità possa accadermi. Sì, che possa accadere proprio a me. E voglio lasciare spazio all’eventualità che quella deformità sia sacra e benedetta, per quanto spaventosa. Che possa rivelarsi tale. Che possa essere meglio di tutto il positivo pensabile.