Quando ho scoperto di essere incinta, la mia mente ha subito disegnato due possibili scenari: uno catastrofico e uno estatico. Sarà un disastro, mi dicevo, ma se non sarà un disastro, sarà la perfezione.
Mi sono resa conto che funziono così quasi sempre: sono in grado di concepire solo i due estremi della curva gaussiana, che coincidono con la prospettiva più temuta e con quella più desiderata. Il mio sguardo tende a non mettere mai a fuoco tutto ciò che sta tra un vertice e l’altro, anche se nella maggior parte dei casi è proprio lì che la vita accade.
La vita pendola tra luoghi imprevedibili di una vastissima terra di mezzo, e solo in rari casi si inclina verso i poli che sappiamo immaginare.
Mi sono ripromessa di non interpretare quello che sto vivendo perché non voglio correre il rischio di partorire la mia bambina immaginaria prima di aver partorito la mia bambina reale. Se c’è una cosa che la Disney mi ha insegnato è che rischiamo tutti di diventare ciò che gli altri disegnano di noi, e in effetti ho visto molte figlie modellarsi sui pregiudizi delle loro madri – e chissà quei pregiudizi dove sono nati, forse proprio là, in uno spazio imprecisato della curva, più o meno a metà tra la gravidanza disastrosa e quella estatica.
In teoria avevo messo in conto che alcune cose potessero andare storte, ma “quelle cose” non si sono mai concretizzate; una dopo l’altra, le paure angoscianti e infondate che mi ero diligentemente preparata ad affrontare sono scoppiate come bolle di sapone.
Quello che proprio non avevo calcolato, la possibilità che non ero riuscita a concepire in tutta la mia ruminazione di pensieri e paure, era che la vita potesse mettermi di fronte all’unico scenario che sarebbe stato davvero legittimo prevedere, uno scenario che suona come un antico e implacabile ronzio, un filo che nessuno aveva mai dipanato: la storia di una familiarità rimossa.
Quello che la ginecologa mi ha presentato come “il mio rischio aggiuntivo”, in effetti, non è nato oggi mentre sto diventando madre, è nato 37 anni fa mentre stavo diventando figlia. D’altra parte la mia di madre è sempre stata una donna coraggiosa e concreta che non si lamenta mai dei suoi disturbi, e noi in questi anni abbiamo parlato davvero poco di quel mese trascorso in ospedale subito prima della mia nascita, con una pressione sanguigna troppo alta e un sospetto di preclampsia.
Del suo ricovero io non ne ho mai saputo nulla fino a quando la mia danzaterapeuta, dopo una sessione particolarmente difficile per me, mi ha suggerito di indagare sulle circostanze della mia nascita. E così, a 30 anni suonati, ho sentito parlare per la prima volta di quel piccolo inconveniente, che in realtà era un grande inconveniente. Ma chi se lo immaginava che fosse grande. Io certamente no, perché all’epoca gli unici problemi che riuscivo a prendere sul serio erano i miei. E credo che la gravità della cosa non se la fosse mai davvero immaginata nemmeno mia madre, perché in quel lungo autunno di 37 anni fa si era dovuta far bastare le quattro parole che le avevano rifilato i medici – non aveva potuto cercare “preclampsia” su google, per esempio.
Per quanto io tenti di non interpretare, quando gioco e parlo con la mia bambina ho l’impressione di aver già fatto un passo indietro rispetto al presente, che mi sembra più suo che mio. Anche se viviamo entrambe nel mio corpo, mi sconvolge la chiarezza con cui riesco già a percepire la sua indipendenza, al punto tale che mi viene difficile usare gli aggettivi possessivi. Scrivo “la mia bambina” perché è ancora tempo di proteggere il suo nome, ma sono consapevole che è una forzatura, e mi suona male, perché io so che lei appartiene a se stessa.
La sento libera e svincolata dal filo della mia storia familiare, ma forse questa è solo un’immaturità prospettica: so bene che lei, in realtà, oltre ad appartenere al suo futuro, appartiene anche al suo passato, che è il mio, ed è anche quello di mia madre. Eppure faccio fatica a sentire questa continuità: è più forte la sensazione che lei sia fatta soprattutto per guardare avanti e bucare la terra come il grano a primavera – sarà che io invece sono nata in autunno, e ho dedicato tutta la mia vita a sistemarci le radici.
Prima di scoprire il suo sesso biologico avevo detto alla mia psicologa che se fosse stata una femmina per me sarebbe stato più difficile e più prezioso. Cautamente mi viene da dire che questi sei mesi di gravidanza sembrerebbero confermare la mia sensazione. Non intendo dire che lei sia funzionale a qualcosa – lei non è per me – ma la sua presenza mi sta già esponendo a ciò che faccio più fatica a vedere e a gestire.
E per quanto io creda di aver dissodato la terra, scucito e ricucito la tela del nostro passato, il dato di fatto è che lei ha già svelato un primo filo che mi era sfuggito, un filo che era rimasto nascosto: quel “rischio aggiuntivo” che è parte della nostra storia da chissà quante generazioni.