C’erano una volta due occhi color cervone che abitavano in una casetta azzurra di via Lincoln a Milano.
Ogni sabato mattina Occhiodestro metteva “Diet Mountain Dew” alla cassa bluetooth e si preparava per uscire. Distribuiva il primer su tutta la palpebra e poi picchiettava un po’ di ombretto color mattone all’estremità esterna, sfumandolo a poco a poco con un pigmento dorato. All’interno, vicino alla caruncola, dava un colpetto di illuminante. Per completare, spalmava una gran quantità di mascara allungante sulle ciglia.
Occhiosinistro nel frattempo chiudeva la porta della sua stanza per proteggersi dalla musica e giaceva una buona mezz’ora sul letto prima di andare in bagno e sbarazzarsi delle cispe notturne con una ripassata di acqua fresca. “Meglio mal accompagnati che soli”, pensava, e attendeva pazientemente il momento di uscire per la consueta colazione del weekend alla Tabaccheria Giacomo in via Sottocorno.
Non si poteva dire che ci fosse un giro di occhi simpatici da quelle parti, ma le brioches erano proprio buone. Fosse stato per lui, comunque, la colazione si sarebbe anche potuta risolvere a latte e cereali. Il fatto è che a Occhiodestro piaceva sentirsi parte del giro giusto almeno una volta a settimana. A Occhiosinistro invece non interessava il circo della società. Si prestava a quell’uscita di rito soltanto perché rifiutarsi non era un’opzione. Occhiodestro e Occhiosinistro, come tutti gli occhi vedenti, non potevano stare a lungo separati perché vivevano in un mondo condiviso.
Quando un fascio di luce colpisce una lente convessa, i fotoni proseguono nella direzione da cui sono arrivati, e così le immagini di Milano che ogni istante invadevano le loro pupille, attraversavano il cristallino e penetravano l’umor vitreo, finivano per impressionarsi in parte sulla retina di Occhiodestro, e in parte su quella di Occhiosinistro.
Come se non bastasse, questi frammenti di città distribuiti fra le retine venivano nuovamente rimescolati dal nervo ottico che a un certo punto, lungo la strada per il tronco encefalico, impazzisce e decussa. “Decussare” – gli occhi lo imparano in terza elementare – significa in sostanza “scambiarsi frammenti di città”.
Il risultato di questo pasticcio è che Occhiodestro e Occhiosinistro, come tutte le coppie di occhi, potevano conservare una visione coerente del mondo solo fintanto che andavano insieme a far colazione alla Tabaccheria Giacomo il sabato mattina. E così, puntualmente, quando Lana Del Rey cominciava con le canzoni tristi, Occhiodestro gridava “Ci sei? Non fare lo strabico!” e Occhiosinistro si metteva il trench sbuffando che era già ottobre. E si usciva di casa.
Dopo aver attraversato il loro minuscolo giardinetto di via Lincoln – minuscolo sì, ma in tempo di Covid era stato una manna dal cielo -, si presentava sempre lo stesso problema. Lungo il tragitto che li separava da via Sottocorno, che per un paio di gambe è un attimo ma per un paio di occhi sono almeno quindici minuti, Occhiodestro voleva mettere gli occhiali da sole e Occhiosinistro preferiva vedere la luce per quella che era. “Insisti tanto per uscire”, diceva Occhiosinistro, “e quando esci non ti guardi neanche in giro”. Ma Occhiodestro non era interessato a guardare. La cosa sua era puntare una destinazione e colpire il bersaglio, che nessuno dicesse che era lento o miope.
“Non c’è un bel niente da vedere”, rispondeva Occhiodestro e frugava nelle tasche alla ricerca dei suoi Airpods, rodendosi segretamente l’anima per averli acquistati tre settimane prima che uscisse l’ultimo modello. Non aveva fatto in tempo a mettere piede nella seconda generazione di cuffiette che gli altri erano già balzati nella terza.
Occhiosinistro non vedeva l’ora che l’altro si isolasse nella musica per immaginarsi finalmente solo con i suoi frammenti di mondo, con il suo passo, con le sfumature della luce del mattino e con i ciuffi di Tarassaco sul ciglio della strada. Eroici loro che crescono anche in questa città.
Il tempo del tragitto era la sua dimensione. Prima di contendersi l’ultimo tavolino all’aperto anche se fa freddo, prima di irritarsi con i baristi che non vengono mai a prendere l’ordine, prima di scoprire che la vegana è finita ma volendo c’è l’integrale al miele, Occhiosinistro aveva una quarantina di minuti per imparare a guardare meglio, per provare a poggiare i piedi con più calma, per salutare via Benvenuto Cellini e ricordarsi quanto fosse graziosa e ristretta la zona Dateo, che coincideva con il perimetro del suo mondo, che in realtà era suo solo per metà.
Negli ultimi due anni capitava abbastanza spesso di sentire di due occhi che si dividevano, una cosa che all’epoca dei loro nonni sarebbe stata inconcepibile e che prima del Covid era una rarità assoluta. Pare che a furia di guardare lo stesso scenario in molti sentissero l’esigenza di andarsene, portandosi via il loro emimondo.
“Chissà cosa se ne farà di una mezza città”, aveva pensato Occhiodestro quando uno dei proprietari del Negozio Leggero di via Anfossi se n’era andato con tutti i suoi pezzi di mondo. Qualcuno diceva che fosse partito per l’India con gli Hare Krishna che gestiscono il ristorante vegano in via Torino, qualcun altro sosteneva che fosse entrato in Scientology e si fosse trasferito a Los Angeles.
Occhiosinistro quella scelta la comprendeva bene. È vero che loro erano fortunati con il giardinetto e tutto quanto, ma a volte, specialmente il sabato mattina, lui si sentiva sopraffatto da una gran voglia di libertà, dal desiderio di restare solo per molto più tempo di una colazione, convinto che non si sarebbe sentito solo, anzi. A pensarci gli venivano i lampi nella pupilla. Ma si sa che tra il dire e il fare.
Da Giacomo quella mattina c’era la solita marea di occhi, tutti truccati e senza mascherina. C’erano gli occhi che abitavano all’incrocio con via Pietro Calvi, nell’attico con le vetrate che davano sulla strada – chissà da chi l’avevano ereditato. C’erano quei due occhi verdi che ogni tanto facevano qualche ospitata in televisione, molto più scuri dal vivo, a essere onesti. C’erano i vicini di casa con il loro fastidiosissimo bassotto. Nessuno aveva mai preteso di forzare i rapporti, ma neanche così. Vivevano a pochi metri di distanza da vent’anni e ancora fingevano di non conoscersi.
In quella confusione di ammiccamenti, strizzatine e sollevamenti delle pupille al cielo, Occhiodestro ci sguazzava. In realtà c’era una parte di lui, in fondo alla cornea, che avvertiva un profondo disagio, la sensazione di non essere mai abbastanza luminoso o pigmentato. Eppure quella sensazione era ormai una compagna di vita a cui non faceva più caso, anzi, per qualche strano motivo una parte di lui andava proprio alla ricerca di situazioni che rendessero un po’ più acuto quel cronico malessere, e un po’ più vivace la sua esistenza.
Occhiosinistro invece si limitava a osservare. Era l’unico struccato in tutto il locale e se ne compiaceva segretamente. “Che guardassero pure”, pensava. Tutti quegli occhi falsi e cortesi, prevedibili e insicuri, gli servivano per ricordarsi ciò che lui e il suo nevo coroidale non erano mai stati e non sarebbero mai voluti essere. Non era un caso che fosse nato con quella particolarità che lo rendeva diverso da tutti gli altri, una lentiggine scura che spuntava come una talpa sulla superficie della sua iride color cervone.
“Dai che se ne vanno!”. Occhiodestro era specializzato nella brusca interruzione dei pensieri altrui. Il tavolino all’ingresso si era liberato, ed era giunto il loro momento di prendere posto per ordinare le solite brioches vegane che spesso alle 10 del mattino erano già finite, due spremute d’arancia, due caffè americani e una bottiglia di acqua leggermente frizzante. Mentre Occhiodestro si sporgeva per salutare una coppia di vecchi conoscenti che stavano giusto entrando, storici proprietari di una catena di abbigliamento che cominciava per Miqualcosa, Occhiosinistro fu catturato dalla percezione di una anomalia.
In fondo a sinistra del locale, subito prima del bancone, stava decisamente succedendo qualcosa di strano. I conti non tornavano. Ci mise un attimo per realizzare che mancava un occhio, o che ce n’era uno di troppo, a seconda dei punti di vista. Si concentrò meglio, e si rese conto che, appollaiato su uno sgabello e così discreto da passare quasi inosservato, c’era proprio lui, uno dei due occhi del Negozio Leggero di via Anfossi, quello “rimasto orbo”, per dirla come la dicevano in giro. Quello rimasto solo.
Per quanto si sforzasse di ritornare con la concentrazione alle brioches e alle chiacchiere da bar, il suo sguardo continuava a sfuggirgli di mano per riposizionarsi proprio là, dove c’era quell’occhio solitario che consumava lentamente una pasta di mandorle. Troppo dolci le paste di mandorle, incredibile che qualcuno riuscisse a mangiarle per davvero. Lo incuriosiva tutto di quella scena.
Cercando di non farsi notare, scrutava morbosamente per raccogliere informazioni. Sperava che almeno un dettaglio di quell’occhio a forma di pesce gli svelasse qualcosa della vita in solitudine che tanto lo affascinava. Cercava risposte nelle estremità cadenti, nei movimenti lenti della pupilla, nell’iride azzurra che diventava quasi gialla verso il centro e in quel principio di blefarite, così evidente, così significativo. Avrebbe tanto voluto che tutti gli occhi della Tabaccheria Giacomo si spegnessero ad eccezione dei loro. Sarebbe stata un’occasione perfetta per parlarsi così, da occhio a occhio, e domandare come ci si sente a stare da soli e come si fa a vivere in un mondo a metà.
Trascorsi i soliti dieci minuti di tavolino e brioches, Occhiodestro sapeva che era buona norma alzarsi e lasciare posto a chi nel frattempo si era intrattenuto in piedi, all’ingresso del bar, a sprecare il fiato in attesa che qualcuno si sbrigasse. Noblesse oblige. Senza bisogno di parole, Occhiodestro mosse la sedia e Occhiosinistro assecondò il suo cenno.
Lasciarono venticinque euro sul tavolo – i ventidue della colazione più tre euro di mancia – e si avviarono verso l’uscita. Ogni volta, sulla soglia dalla Tabaccheria, Occhiodestro veniva colto da una strana frustrazione, a metà tra la delusione e l’amarezza. “Ecco qua”, pensava “il sabato è praticamente finito”. Per dare sfogo a questo senso di inutilità aveva imparato a usare la tecnica della lamentela, e anche quel giorno era prontissimo per sganciare il suo lungo e collaudato elenco di fastidi: dalla scortesia del barista al sovraffollamento, dal pessimo rapporto qualità prezzo alla mediocrità del servizio al tavolo.
Occhiosinistro lo anticipò. “Devo andare un attimo in bagno, aspettami pure qui, tanto faccio in fretta”. Naturalmente il suo obiettivo non era il bagno ma l’occhio sullo sgabello, dotato di una tale discrezione da sfuggire allo sguardo di tutti tranne che al suo. Si sentiva stranamente deciso. Rientrò nel locale, si fece largo tra la folla e si avvicinò con invidiabile sicumera.
“Buongiorno”.
“Buongiorno!”.
“Mi scusi se la disturbo”
“Si figuri”
“Non vorrei essere inopportuno ma sarei interessato a sapere com’è la solitudine”.
“Non è il primo che me lo chiede. All’inizio è complicato, ma quando ci si fa l’abitudine non è niente male”.
“Ah. E come si fa a vivere sempre in un mondo a metà?”
“Mio caro, detto tra noi: il mondo è a metà solo quando si tiene l’occhio aperto. Il trucco è chiuderlo spesso”.
“Chiudere l’occhio?”.
“Sì, chiudere l’occhio. Fare di giorno come si fa di notte. A occhio chiuso il mondo è tutto intero anche quando si è soli”.
“Capisco. Mi tolga un’ultima curiosità. Il suo compare è andato in India o a Los Angeles?”
“Veramente si è traferito a Pieve Emanuele”
“Ah”
“Non ne poteva più di questo quartiere e di questa città. Dice che in provincia si spende di meno e si vive meglio”.
“Buon per lui allora. Molte grazie.”
“Si figuri”
“Arrivederci”
“Arrivederla!”
Occhiosinistro e Occhiodestro si ricongiunsero fuori dalla Tabaccheria Giacomo e si incamminarono verso via Lincoln.
“Sabato prossimo si va da un’altra parte, ti avviso, questo posto è diventato infrequentabile” attaccò Occhiodestro.
“Pieve Emanuele” borbottò Occhiosinistro tra sé e sé.
“Cos’hai detto?”
“Niente. Dicevo che viene la neve. Che tra poco è inverno e viene la neve”.
“Non sperarci. Nel 2019 ha nevicato perché in pandemia l’aria era meno inquinata, ma non ricapiterà tanto facilmente.”
“Che peccato”
“Mah, ci risparmiano un po’ di fango”
“Ti ricordi che bello?”
“Cosa?”
“Il lockdown. Tutti si lamentavano ma noi siamo stati bene. Nel giro di due mesi gli animali si erano rimpossessati delle città e l’aria era così pulita”.
“Già, peccato che nel giro di sei mesi ci siamo conciati esattamente come prima”.
“Incredibile, vero?”
“Sì. Incredibile”.
“E io che pensavo che qualcosa sarebbe cambiato per davvero. Ti ricordi? Tu avevi anche cominciato a disegnare. Se non ci cambia una pandemia, dicevamo…”.
“Ma figurati. Non c’è niente che può cambiarci”
“Già, non cambia mai nessuno”.